[:it]Guerra delle valute[:]
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Ognuno fa la sua mossa sullo scacchiere dell’economia globale. Cosa ci attende?
L’America entra a gamba tesa, ma il presidente della BCE non ci pensa due volte ad ammonire la giocata scorretta. Siamo nel bel mezzo di una guerra di valute? Ecco strategie e timori delle grandi economie
“Un dollaro più debole è buono per il nostro commercio e le nostre opportunità” ha affermato Steven Mnuchin, segretario al Tesoro americano, e la notizia è subito rimbalzata su ogni mezzo di informazione. Si, perché quella che sembra una frase scontata è in realtà un tabù che ha scoperto un nervo sensibile. D’altronde le conseguenze non si sono fatte attendere: il biglietto verde ha risposto con un ulteriore deprezzamento, che ha portato il cambio con l’euro a 1,2490. Sperare che il dollaro continui a scendere, e quindi che l’euro continui a salire, significa mettere un grande ostacolo ai piani della Bce per un graduale rialzo dei tassi a partire dal 2019. È per questo che la risposta di Draghi è stata secca e decisa. Nella conferenza seguita alla riunione del Consiglio dei Governatori, il presidente della Bce ha affermato che una parte della recente volatilità sul mercato dei cambi, è stata causata “dall’uso di un linguaggio che non riflette i termini di riferimento concordati”. Frecciatina chiara alla Casa Bianca, invitata per ben due volte, in modo indiretto, ad adeguarsi ai «termini di riferimento» che, benché vecchi di anni, finora sono stati rispettati da tutti i Paesi. Le autorità finanziarie e monetarie internazionali hanno infatti stabilito di non cercare di indebolire una valuta allo scopo di aiutare le esportazioni del proprio Paese. Accordo ribadito l’ultima volta lo scorso 14 ottobre nel comunicato emesso a Washington dall’International Monetary and Financial Committee nell’ambito delle riunioni del Fondo monetario internazionale: «Ci asterremo dalle svalutazioni competitive e non interverremo sui nostri tassi di cambio per scopi competitivi» si legge nel documento firmato dai ministri finanziari, compreso Mnuchin, alla presenza dei governatori delle maggiori banche centrali. Inutile quindi la pronta risposta di Trump, che corregge il tiro del suo segretario dicendo che è interesse dell’America che il dollaro si rafforzi; la pietra è ormai stata lanciata e il mondo, così come il mercato, non sono rimasti indifferenti. Il risultato? Un dollaro che continua a scendere e una spaccatura tra le due valute che continua ad allargarsi. Se la situazione non cambierà presto le aziende europee che esportano inizieranno ad avere difficoltà. Ma i problemi potrebbero riguardare anche le borse e la stessa Bce: un euro più forte avrebbe l’effetto di rallentare gli aumenti dei prezzi che la Banca Centrale sta cercando di portare verso l’obiettivo di quasi il 2%.
Oltreoceano però non se la passano meglio; il programma di Trump ha al centro il riequilibrio della bilancia commerciale. In tutto, l’economia americana importa ogni anno dal resto del mondo beni e servizi per oltre 500 miliardi in più di quanti ne esporta. Ma un deficit del genere si può coprire soltanto con un aumento dell’indebitamento, quest’anno già destinato ad impennarsi per il finanziamento della riforma fiscale. Nessuna via d’uscita per gli americani: i Tbond fanno sempre meno gola a Cina e Giappone e gli europei si guardano bene dal portare i loro capitali negli Usa.
«In questo momento una guerra valutaria è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno» ammonisce da Davos Benoit Coeuré, membro del comitato esecutivo della Bce. Sta di fatto che trovare un equilibrio tra Europa e America non sarà impresa facile. Lo stesso Coeuré ha messo le carte in tavola: «Se la volatilità sui cambi porta di fatto a una restrizione dell’espansione monetaria dovremo agire», lasciando intendere che un euro ancora forte allontana l’inflazione e quindi la fine del Quantitative easing e dei tassi bassi.
Tra i due litiganti, il terzo gode! E in questo caso ad approfittarne è il Giappone. La strategia dei nipponici è chiara, dopo le massicce immissioni di liquidità dell’ultimo biennio: la Bank of Japan sta rendendo lo yen molto appetibile per i mercati, riducendo i propri acquisti di obbligazioni a lunga scadenza. Non è un caso se, insieme al franco e alle monete scandinave, lo yen si candida, secondo gli analisti, come uno degli strumenti finanziari più interessanti su cui investire come bene rifugio.[:]